I VAGABONDI DEL TORRONE

 

Non è da oggi che gli abitanti di Tonara e della Barbagia di Belvì  percorrono l'isola per vendere i loro prodotti caratteristici: da Aritzo partivano portando blocchi di neve con cui confezionavano i gelati rimasti ormai nella memoria di pochi col nome di carapigna;  da Desulo, come ha scritto Montanaru nel suo famoso sonetto, si muovevano in tanti, con quei piccoli cavalli, fortes e, lanzos, e ripetevano, umiles, i loro richiami: «Eh castagna! / E chie comperat teruddas e taggeris?»; E i tonaresi, anch’essi pronti ad ogni sacrificio per portare nelle feste e nelle fiere il famoso torrone e le campane grandi e piccole per il bestiame.

Ereditavano così, questi intraprendenti montanari, lo spirito avventuroso dei Pastori abituati alla vita dell'ovile e alla transumanza, ma forse davano espressione all'esigenza delle popolazioni montane di rompere l'isolamento di questi alti luoghi per restare in contatto con le altre contrade.

Tra tutti quei prodotti, lavorati ed esportati con costante tenacia, quello che resiste meglio nel tempo e che sembra destinato ad una maggiore diffusione, è il torrone di Tonara: in questo paese sono circa cinquanta gli ambulanti che lo commerciano; e chi conosce appena la Sardegna sa come arrivino regolarmente in tutte le sagre di paese e di città.

Gli ingredienti sono pochi, semplici, e non sono mai cambiati con il tempo: il miele, che può essere anche miscelato con zucchero, il bianco d'uovo, e la frutta secca: possono essere noci, oppure mandorle, o nocciole, che debbono essere abbrustolite, turradas.  Un tempo si usavano le arachidi, ora non più.  La frutta viene aggiunta alla fine; ma gli altri componenti devono essere mescolati a lungo, sul fuoco: circa quattro ore.  Il  segreto consiste proprio nel sistema che si usa per capire quando il composto è pronto.

Un tempo ogni ambulante preparava il torrone in casa: si accendeva un fuoco di legna di agrifoglio (Oggi specie Protetta), un legno molto adatto perché fa poco fumo e brucia con costanza; il miele e l'albume si mettevano in un paiolo, labiolu o cheddargiu  di rame, e si girava tutto a mano, con una paia di legno, sa moriga.  Si ottenevano così, in mezza giornata di lavoro, 17 chili di torrone.  Oggi si usano delle impastatrici elettriche, il cui recipiente, a bagnomaria, viene riscaldato col gas: si ottengono 50 chili di prodotto.  Questo lavoro viene fatto in alcune piccole fabbriche: molti ambulanti ormai acquistano da queste fabbriche il torrone che poi portano a vendere.

E il commercio del torrone è sempre un lavoro faticoso, anche se sembrano lontani i disagi di un tempo: una volta gli ambulanti impiegavano tre giorni, col carretto tirato dal cavallo, per arrivare alle feste del capo di sopra: Valverde di Alghero, San Gavino di Porto Torres, Nostra Signora di Talia a Olmedo.  Facevano tappa nelle osterie, nelle cantoniere, o passavano la notte vicino al carro, per risparmiare e per sorvegliare meglio il carico.

Oggi naturalmente si viaggia con camion o furgone, e il problema è quello di arrivare presto per procurarsi una buona posizione di vendita.

La vendita ambulante del torrone sembra non conoscere momenti di crisi. E la gente apprezza sempre di più il prodotto, anche i turisti; gli emigranti ne portano via grandi quantità per regalarlo.  E poi le feste e le occasioni sono tante, Attualmente gli ambulanti frequentano anche i mercati ed i luoghi di vacanza, dove si può vendere il torrone tutti i giorni, all'ora della passeggiata.  A chi compera piace soprattutto veder gli ambulanti che con maestria sminuzzano il torrone con il tagliere,  cun su taggiante  al momento dell'acquisto. 

Gli ambulanti del torrone  (turronargios o carrattoneris come vengono ancora chiamati per via dell’uso del carro) ovviamente non vendono solo il torrone di Tonara ma si occupano di merci varie.

Non  è un nomadismo che nasce da oscuri ed inspiegabili impulsi di fuga che germinano e fermentano nelle pieghe più profonde dell’anima. E non è neppure quella curiosità di conoscere – quasi un’ansia - che scorre nelle vene insieme al sangue, trasformando la vita in un viaggio senza fine. 

I tonaresi non sono mai stati mercanti per vocazione, ma lo sono diventati per necessità, cercando di trovare un'alternativa a quei pascoli che il vento gelido delle montagne fa diventare duri come la pietra.  Ma a determinare questa scelta non fu soltanto il clima e la povertà delle terre.  Fu anche il desiderio di volersi liberare dai razziatori che venivano dai paesi vicini per depredare le loro sparute greggi: era la dura legge della montagna, o meglio, la legge selvaggia della sopravvivenza che non concede possibilità a una cultura che vive di serenità e di sacrificio, invece che di violenza e di sopraffazione.

Fu così che i pastori di Tonara rinunciarono a vivere in un perpetuo stato di guerra.  Vendettero le campagne e le bestie e lasciarono definitivamente gli ovili trasformandosi, piano piano in mercanti.  Iniziarono a partire con i  carri e i cavalli carichi delle loro povere mercanzie: castagne, nocciole, utensili intagliati nel legno, campanacci e il torrone, fatto dalle loro donne nelle interminabili giornate di inverno.  Percorrevano le strade e i sentieri di tutta la Sardegna, raggiungendo anche i centri più sperduti, e tornavano dopo settimane, o addirittura mesi.

Portavano danaro o altre merci, ma anche i dubbi, le certezze e la cultura della gente che incontravano durante le loro peregrinazioni. Poi, subito dopo, ripartivano.  E Ogni ritorno era una festa: si portava il danaro, si raccontavano le avventure di viaggio e, i sacrifici, ma anche le angosce della civiltà barbaricina e le infinite fatiche di quella del Campidano.  Insomma, ogni viaggio era anche un arricchirsi, un allargare progressivamente i propri orizzonti e avere, in pratica, sempre maggiori occasioni e strumenti di conoscenza.

Questa rivoluzione nella mentalità e nei costumi avvenne agli inizi del secolo. Oggi ai cavalli e ai carri si sono sostituiti i camion e i furgoni e a quella tenera curiosità si è sostituita una mentalità imprenditoriale.  Come capita sempre in ogni società chiusa e diffidente davanti alle novità, ogni cambiamento viene visto con un sentimento di sospetto misto alla sufficienza e al sarcasmo.

E poi ci sono i fabbri.  Costruiscono i campanacci per le pecore e per le mucche con un procedimento antico di secoli e del quale tengono gelosamente il segreto.  La loro è l’arte del mescolare il ferro e l'ottone e di forgiare le lamine di metallo.

 

                                                                                     

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