Ricerche di antichità preistoriche e romane

nel territorio di Tonara

di Antonio Taramelli

 

 

 

Il villaggio di Tonara è uno dei più elevati dell'isola di Sardegna (m. 935 sul livello del mare). È addossato alle falde della bella montagna detta Mungianeddu, uno degli ultimi contrafforti, verso sud-ovest, della catena del Gennargentu, in una posizione quanto mai pittoresca e dominante sopra una fiera e solenne contrada, che conserva ancora in parte la ricchezza dei suoi boschi secolari di lecci e di roveri, e si allieta di castagneti e di noccioleti e di discreti tratti di coltivi.

La posizione del villaggio è fra le più salubri dell'isola, così da farne una residenza estiva attraente; ma certo prima della costruzione delle attuali arterie ferroviarie e stradali, quell'abitato, relegato quasi a cavaliere del valico tra la valle dell'Isera, affluente dell'Araxisi, e quella di Bau Codina, affluente del Rio Taloro, si presentava di difficile accesso e naturalmente forte e ben difesa. L'ampio territorio dell'alpestre comune, abitato da una popolazione forte, sana, laboriosa e fra le più belle e vivaci della Sardegna, si stende occupando dello balze montane di Mungianeddu e di Montesusu, antemurali del Gennargentu, confinando coi territorii di Desulo, che occupano buona parte del versante meridionale della catena; occupa poi la regione ad altipiani boscosi che dalla valletta di Bau Codina sale al ciglio della Sierra di Su Lampu, dominante la conca di Sorgono, e degrada giù all'ampia valle dell'Isera, per salire al versante opposto, sul crinale della catena che divide questa valle e la silvestre Barbagia di Belvi dai territorii più ondulati e pianeggianti di Meana e di Atzara. Malsana ed umida è la parte inferiore della valle, che alla sua uscita verso la valle dell'Araxisi è serrata da una stretta gola inferiore, ed alla sua testata superiore, verso Aritzo, termina col valico di Su Cosatzu, che dà alla valle del Flumendosa; salubre è invece tutta la parte del territorio dove sono i pascoli e le boscaglie, dai quali per lo più vive la popolazione d'oggi, come le antiche, attaccato alle industrie della pastorizia e del bosco, anziché a quelle dell'agricoltura, di scarso reddito per l'asprezza dei luoghi e per la distanza dei coltivi dai centri di abitazione.

In età romana il territorio, tanto nella vallata che su per gli altipiani, fu sparso di abitati; un'antica via romana, forse un diverticolo della maggiore via che da Caralis traeva a Biora valentia e Sorabile, doveva certamente penetrare, per ragioni strategiche, entro alla Barbagia di Belvì dal valico di Gennargentu, dove restano alcune tracce; scendere per la valletta di Antonizò nella valle dell'Isera, verso Belvi, lunghesso il fiume ed attraverso il territorio di Tonara muovere versò Sorgono ed Austis, dov'era un nucleo di abitato romano, una stazione militare per la sicurezza di queste regioni, tra le più irrequiete e turbolenti dell'isola.

All'età romana, più o meno tarda, si riferiscono alcuni idoli rinvenuti, di cui è memoria per il territorio di Tonara, sia in regione di Matalà che a Pedra Lobadas, a Su Murmà e finalmente in regione Tonai, un vasto e boscoso altipiano a 1000 m. sul mare, un vero parco di grande bellezza, tra il Riu Bau Codina o la sierra Su Lampu, dove in varie occasioni, mediante lavori casuali di boscaiuoli e di agricoltori, si ebbero avanzi di stoviglie di età romana; anzi qui, per la scoperta di alcuni grossi ziri in terracotta, di cui uno vidi conservato presso la famiglia di Giovanni Tore, si rinsaldò nelle menti fervide di alcuni di quei montanari la convinzione della esistenza di uno di quei tanti tesori ai quali in pochi paesi del mondo si crede come in Sardegna.

Ma per contrario, di costruzioni e di avanzi riferibili ad età più antiche, il territorio di Tonara non aveva dato sinora che scarse tracce; a differenza di altre parti della zona del Gennargentu, tanto nel versantemeridionale, nel distretto di Aritzo, quanto nei contrafforti settentrionali nei territorii di Arzana e di Fonni, dove abbondano i nuraghi, le tombe di giganti e le pietre fitte; invece il distretto di Tonara, forse per la sua asprezza, per le profonde vallate che lo solcano o per il denso strato delle foreste che tutto quanto lo avvolge, non ebbe sedi notevoli delle genti protosarde.

Nelle varie perlustrazioni che vi praticai nei mesi di agosto e settembre dell'anno corrente, non potei rintracciare che i resti di una sola costruzione nuragica, già segnalata in un primo elenco ufficiale dei monumenti della Sardegna, redatto dall'ufficio dei monumenti di Cagliari, sino dal tempo in cui questo era diretto dal compianto prof. F. Vivanet .

Tali resti sono ridotti a poche pietre della base del nuraghe, disposte per un tratto di curva, le quali sorgono in vetta ad un acuto tacco di calcare giurassico, che torreggia di fronte all'abitato di Arasulè, il principale centro di Tonara, ed oggi sormontati da un'alta croce di legno, corrosa e schiantata dai frequenti colpi di fulmini che cadono in quel punto. È tuttavia notevole la posizione di questo nuraghe: è situato a 966 metri sul mare, a cavaliere del valico tra la valle dell'Isera e quella di Bau Codina, dove anche ora passa, come passarono le strade più antiche, la grande e bella via provinciale da Cagliari a Sorgono che, raggiunta la valle del Rio Codina, alla cantoniera di questo nome, si incontra con la strada nazionale di Fonni, Tiana e Sorgono. Dal nuraghe si doveva dominare, oltre al duplice valico, anche tutta la vasta vallata del Rio Isera, l'arteria della Barbagia, coi valloni finenti giù del Gennargentu, di Bau, Desulo e di Baueri, sino al passo di Genna Entù, che fu per tutti i tempi, e lo è anche ora, la via principale verso l'Ogliastra da un lato, e verso i Campidani meridionali dall'altro.

Il nuraghe dominava quel valico e tutti gli altri minori, dai quali poteva penetrare nel territorio che fu più a lungo indipendente dagli Iliensi, l'invasore nemico.

Era una posizione di dominio e di vedetta fra le più evidenti a dimostrare il carattere e lo scopo strategico della maggior parte delle costruzioni nuragiche. Ma, come dissi, i resti erano ormai ridotti a poche pietre della base, sopra una vetta dirupata e di difficile accesso, le quali, insieme al nome di Bruneu Su Nuraze, attestano la presenza dell'antico abitato protosardo.

Ai piedi di questo tacco calcare si estende un tratto di altipiano, dove ora si hanno varie cave per i forni della calce; ed ivi si ebbe, fra i cumuli di schegge di pietre, qualche frammento di stoviglie di rozzo impasto, tracce di abitazioni antiche più modeste e più riparate dal vento che non fosse il nuraghe dominante e battuto da tutti i lati.

All'estremo lembo settentrionale di questo pianoro, dove questo degrada verso la via provinciale, affiora un arido banco di puddinga quarzosa, dalla superficie a grossi mammelloni tondeggianti, inciso alla base da molte frane e da cave di sabbia.

In questo tratto, in regione Maddì, ad un chilometro circa da Arasulè, si nota una grotta artificiale, una domus de gianas, o come dicono nel luogo, un forreddu de gianas, scavata entro ad un mammellone di puddinga, sporgente di circa 3 m. dal piano circostante, la cui superficie esterna verso la fronte ed il lato recava evidenti segni di essere stata spianata e adattata a ricevere entro al suo seno la dimora sepolcrale. La elevata giacitura e la singolarità di questa tomba, la quale appariva composta di varii ambienti ed era per più della metà interrata, massime verso la bocca, mi invitò a farne una diligente rinettatura, la quale, se diede scarsissimi resti della suppellettile, non fu inutile, avendo offerto modo di notare un dato nella pianta del monumento sepolcrale non privo di interesse.

La tomba era già stata molti anni addietro visitata anche dal prof. Lovisato, di cui sono note le benemerenze verso gli studii archeologici e preistorici della Sardegna, ed era stata da lui pure descritta brevemente nella sua Pagina di storia sarda, pag. 88. Ma avendo egli visitata la grotticella senza uno scavo, la descrizione non è completa né esatta del tutto. Egli dice che alcune domus de gianas della Sardegna si trovano "in una specie di anagenite bianca, un conglomerato quarzoso, qua e là ferruginoso, con ristrette lenti di grès e che il Lamarmora attribuì all'eolite superiore: una singolare in questa forma litologica si vede nel luogo denominato Martì, a pochi minuti da Tonara, con due aperture, una ad est, 1' altra ad ovest sud-ovest, quindi diametralmente opposte, munite di atrio e che mettono nella stanza di mezzo, la quale fa le funzioni di vestibolo: dalla stanza di mezzo, appena alta 55 cm., quindi poco più della porta, che è di 50 cm., si passa a sud-sud-est, in larga stanza laterale".

Rinettata completamente la tomba, essa rivelò di essere stata completamente spazzata dalla sua suppellettile primitiva: di questa non rimasero nelle tre celle e nell' anticella che pochi frustoli di ceramica rozza. La presenza di varii frammenti di stoviglie romane lascia supporre che in questa età 1' antica tomba fosse stata violata per dar luogo a nuove sepolture.

La grotticella sepolcrale è accuratamente scavata nella roccia durissima, che conservava, specie nell'interno, gli spigoli ancora vivi e taglienti. È formata  da un'anticella che dà accesso alla cella principale, con due celle minori, aperte una nel lato destro dell'ingresso, l'altra quasi di fronte. L' anticella è piuttosto un padiglione a larga bocca semicircolare, dal cielo pianeggiante; è limitata verso l'interno da un leggiero rialzo ad orlo, di m. 0,16, che lascia al lato destro un passaggio di m. 0,62 per accedere all'atrio stesso. L'ampiezza dell'atrio è di m. 1,90x1,85, con una pianta irregolarmente circolare.

Dal portello, che ha la soglia rialzata di m. 0,07, ed ampia m. 0,63x0,48, si passa alla camera principale, di pianta irregolarmente pentagonale, coi due diametri maggiori di m. 1,80x1,86, col soffitto pianeggiante ed il fondo, come le pareti levigatissime e bene scalpellate. L'altezza della cella è di soli m. 0,64, e tale ristrettezza è ben giustificata dalla straordinaria durezza del materiale, che dovette essere vinta, prima che dal piccone, dall'azione del fuoco. La cella di destra ha la soglia ed il pavimento di m. 0,24 più alto di quello della cella principale: ha la pianta rettangolare di m. 1,29x1,05; l'altra celletta ha la parete di fondo completamente sfondata, ma è chiaro il contorno delfondo quasi rettangolare di m. 1,20x1,10, elevato di m. 0,18 su quello della cella principale. Anche le due cellette secondarie hanno il soffitto piano ed il pavimento perfettamente levigato.

Tale tipo di tombe con due camerette comunicanti con una maggiore, preceduta da atrio, è già stato più volte segnalato per la Sardegna; e ricordo la tomba di s. Antonio Ruinas, segnalata dal prof. Pinza, per non dire di altre tombe più complesse della necropoli di Anghelu Ruju, con un numero maggiore di cellette comunicanti con la cella principale.

Ma il fatto più interessante datoci da questa domus de gianas di Martì, è un incavo circolare di m. 0,45 di diametro, nettamente scalpellato e della profondità di m. 0,08, scavato nel centro del pavimento dell'anticella, in faccia alla porta di ingresso alla cella. II carattere dell'incisione nella durissima puddinga mostrava la contemporaneità di questo bacino con tutto il resto del lavoro di scavo della tomba; un'altra prova mi venne fornita dal fatto che il fondò dell'incavo conteneva terriccio carbonioso e ceneri, e diede anche una grossa scheggia, o coltellino di ossidiana, roccia assolutamente mancante in tutta la Barbagia di Belvì, e che certo rappresentava un avanzo dell'antico deposito. Evidentemente trattasi di un foculo che doveva servire per sacrificii ed offerte funerarie, di cui avemmo qualche testimonianza negli scavi della necropoli di Anghelu Ruju, alla tomba XI. La tomba di Martì, col suo padiglione aperto, col suo foculo appositamente scavato, con notevole fatica, nel fondo della roccia, dimostra che tali sacrificii dovevano compiersi abitualmente ed in determinate circostanze, e dànno una riprova di quel culto dei, morti, già ampiamente provato per la Sardegna oltre che dalla tradizione letteraria, dalla grandiosità dei monumenti funerarii, sia scavati nella roccia, sia eretti con materiale megalitico, come le tombe dette dei giganti. Anche per la Sicilia l'egregio collega prof. P. Orsi trovò molti sepolcri, massime nella necropoli di Valsavoia, presso Catania, provvisti di ampii padiglioni, ed atrii d'ingresso, per i quali egli espresse il pensiero che non dovessero solo servire per raccogliere le acque piovane ed allontanarle dalla cella sepolcrale, ma altresì per compiervi cerimonie rituali funebri.

Certo che tale esempio di foculo sepolcrale si presenta molto interessante, e giova sperare possa, con l'indagine di altre necropoli sarde, trovare nuova conferma. Nell'attesa di essa, si può sin d'ora richiamare il confronto con l'incavo semisferico dell'altare sul pavimento dell'atrio del pozzo sacro di s. Vittoria di Serri. In questo tempio l'elemento ideologico sepolcrale non doveva essere estraneo, dato il carattere sotterraneo della costruzione. Ricordiamo anche le due braccia di muratura megalitica che si stendevano in curva ai due lati della fronte del tempietto e che richiamano in modo, evidente l'area semicircolare, la quale viene quasi sempre osservata in fronte alle tombe dei giganti. Ed è tanto più notevole che tale fatto, attestante il culto funerario, ci sia stato presentato da questa interna e romita regione della Barbagia, che, come cuore dell'isola, serbò gelosamente lo proprie caratteristiche intime del santuario e della tomba, come conservò la propria libertà fiera e pugnace contro l'invadenza dello straniero.

 

 

                                                                                      

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