Peppino Mereu, per il tempo che deve veniredi Paolo Pillonca Un giovane indifeso, un giovane
sofferente, un giovane che sognava pur essendo costretto dallo scorrere dei
giorni e del suo destino a nascondere in angoli d'ombra i sogni insieme con i
desideri. E le speranze, anche. Aveva occhi penetranti, questo fiore
di gioventù del secolo scorso, quando guardava al suo tempo e al tempo che
doveva venire: splendori e nefandezze li distingueva per istinto, delicato
con gli splendori della terra e degli uomini (il paese, gli amici
sicuri), rigido con chi tramava
opere malvage contro i poveri e i diseredati. Luce degli incantesimi della terra,
desideri d'amore e di buondestino, ribellione contro il mondo delle volpi che
succhiano sangue dagli agnelli: Peppino Mereu regala visioni di grandissimo
fascino e fantasmi di infinita tristezza. Due doni che trasmettono palpiti
sinceri alla mente e al cuore. Ventinove anni soltanto, sopportati
cori fierezza lungo sentieri di pietra e di spine: vento fresco e nuovo nelle
selve della poesia, simbolo di virtù e di identità che non muore pur essendo
arrivato anzitempo e pur essendo stato capito da pochi. Voce dolce e ammonitrice nello
stesso tempo: voce di ieri, per il calendario, ma soffio vitale dell'oggi e
del domani per le anime virtuose. Peppino Mereu aveva intuito alla maniera
dei profeti la virtù primigenia degli animi nobili di ogni terra: l'amore per
il luogo d'origine unito alla difesa degli uomini. Non si arrende a nessun
tempo, questa virtù: valeva agli albori del mondo, conserverà valore fino al
tramonto. Voce inattaccabile dalle rughe delle
stagioni che fanno appassire tutto, chiara sempre e fresca: come l'acqua
delle sorgenti delle vette montane, come la lieve della terra natale.
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